È di pochi giorni fa l’arresto del super latitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Siamo tornati a parlare di mafia, finalmente. Il pr...
È di pochi giorni fa l’arresto del super latitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Siamo tornati a parlare di mafia, finalmente. Il problema delle mafie è sparito dall’agenda politica. E se la mafia stragista forse è destinata a tramontare definitivamente con l'arresto di Messina Denaro, le mafie non sono affatto sconfitte, anzi.
Il sindacato tutti i giorni si impegna nella lotta per la legalità. Può essere utile conoscere cosa si sta facendo sul campo, a diversi livelli della nostra organizzazione. Lo SPI CGIL per esempio porta avanti una serie di attività, tra cui la partecipazione ai campi antimafia di Libera e Arci, e si impegna con la contrattazione sociale territoriale anche sul fronte dei beni confiscati alle mafie.
Abbiamo intervistato Carla Pagani e Roberto Battaglia del Dipartimento contrattazione sociale, legalità e politiche giovanili dello SPI CGIL nazionale. Insieme hanno lavorato alla realizzazione di due pubblicazioni sui temi della legalità che lo SPI ha realizzato in questi anni: “Nelle nostre mani. Guida al riuso sociale dei beni confiscati” e “Terre e libertà. Storie di sindacalisti uccisi dalle mafie”, editi entrambi da Liberetà.
Carla Pagani, puoi descrivere i contorni dell’impegno sindacale in cui si colloca il tema della legalità, sempre più centrale per lo SPI CGIL?
Il percorso della legalità negli anni ha preso forma, l’impegno è andato aumentando e oggi la legalità è uno degli elementi della contrattazione sociale territoriale, del nostro dialogo dunque con le istituzioni per contrattare condizioni di vita migliori per tutti.
Quello dello SPI CGIL è un impegno per la legalità che si colloca nella cornice più ampia dell’impegno della Confederazione per la legalità. SPI, insieme ad Auser, può dare il proprio contributo.
Le mafie sono cambiate?
Certo, provo a descrivere le mafie contemporanee presentandovi qualche dato. Uno su tutti: dal 2017 al 2021 gli illeciti accertati contro la spesa pubblica valgono in media 7 miliardi l’anno. Sistemi illeciti a danno della spesa pubblica e dunque della collettività. E parliamo solo di soldi pubblici. Poi c’è tutta la partita delle imprese private e di mafie capaci sempre più di “spolpare” da dentro aziende, spesso conniventi. I dati del 2021 relativi alle confische parlano chiaro: ai sensi del codice antimafia, si registrano sequestri per quasi 800 milioni e confische per più di 900 milioni.
Di mafie non si parla più. Cosa sta succedendo?
La mafia, progressivamente, cambia pelle. La violenza mafiosa ha cambiato forma, ma non si attenua. Sono sempre più forti le infiltrazioni nel mondo economico, con la complicità di esponenti della politica, delle istituzioni locali e soprattutto dei colletti bianchi, dei professionisti e delle imprese.
Esiste un’area grigia. Determinante è il ruolo dei professionisti nell’espansione dell’economia mafiosa, veri e propri “facilitatori”. Un’intelligenza collettiva al servizio delle mafie. Le mafie hanno bisogno delle imprese e le imprese hanno bisogno delle mafie: un vero e proprio rapporto simbiotico. In questo modo l’economia legale viene inquinata e si aggirano le regole della libera concorrenza.
Si è modificata l’azione sul territorio nazionale?
Sì, sempre maggiore è la penetrazione al Nord. Perché le mire delle mafie sono più rivolte verso l’economia dei territori con maggiori prospettive di crescita. Non è un caso se il maggior numero di provvedimenti antimafia venga emesso nelle Regioni caratterizzate da maggior dinamismo imprenditoriale. Pensiamo al Processo Aemilia, Grimilde e Perseverance. L’Emilia Romagna è una delle Regioni più colpite dalle infiltrazioni mafiose negli ultimi anni.
Cosa è accaduto precisamente?
Possiamo dire che c’è stato un vero e proprio salto di qualità delle mafie. Oggi sono sistemi criminali integrati. Gli ingenti guadagni derivanti dalle attività illecite, in primis il traffico di stupefacenti, vengono reinvestiti nell’economia illegale ma anche – cosa più importante – in quella legale.
La malavita mafiosa si è impossessata di modelli operativi propri della criminalità economica e finanziaria e, adattandoli ai propri, ha messo in atto azioni scellerate, combinando corruzione, violenza e minacce.
Le mafie sparano meno di prima ma sono anche più pervasive, sanno fare rete, sistema, costruiscono il consenso in modo diverso dal passato, occupando gli spazi che lo Stato lascia scoperti. Le mafie sono più invisibili e sanno mimetizzarsi più che in passato. La nuova parola d'ordine di alcune mafie, come la 'ndrangheta per esempio, è centellinare la violenza e normalizzare la propria condotta, per non lasciarsi scappare nessuna occasione.
L’impegno della CGIL. Carla, ci racconti cosa può fare il sindacato italiano più importante e rappresentativo nei luoghi di lavoro e nella società?
Le sfide sono tante, per il sindacato tutto. Sono molte le azioni che si possono portare avanti e sulle quali la CGIL si sta impegnando. Innanzitutto si può costituire parte civile nei processi. Questo è diventato un imperativo a cui il sindacato intende rispondere con impegno e costanza ogni volta che se ne presenta la possibilità.
Poi può sollecitare la costituzione di tavoli provinciali sulla legalità presso le Prefetture, anche per vigilare su come vengono spesi i fondi del PNRR. E ancora, stipulare dei Protocolli di legalità con le Prefetture per stringere le maglie dei controlli, tutelare il lavoro, sicurezza in primis, e ostacolare il più possibile le infiltrazioni mafiose o l’accesso al mercato di imprese in odore di mafia. Ma può anche promuovere l’istituzione di tavoli della legalità a livello regionale mirati all’attuazione degli obiettivi delle leggi Regionali sulla legalità, dove presenti.
E poi può fare rete con gli altri soggetti che operano sul fronte della legalità, come Libera e Avviso Pubblico per citarne solo due.
E invece cosa puoi dirci sui beni confiscati?
I beni confiscati sono i patrimoni che, per essere stati lo strumento del reato mafioso o il risultato di attività illecite, vengono sottratti alle cosche e restituiti alla comunità. Riutilizzare i beni confiscati non significa solo combattere l’illegalità. Vuol dire anche dare vita a un’economia virtuosa e creare nuovi posti di lavoro. Vuol dire creare nuove reti solidali, nuovi processi di partecipazione e condivisione, a partire da quello che torna a essere un vero e proprio “bene comune”.
Si tratta cioè di costruire, a partire dall’antimafia, un modello alternativo alla mafia fondato sul rispetto dei diritti, sul lavoro buono, sulla buona occupazione, sulla riduzione delle disuguaglianze.
L’ambito normativo italiano per il reato di mafia e la confisca dei beni si basa sull’intuizione di Pio La Torre. Puoi sintetizzare la questione per i nostri lettori?
In estrema sintesi, non c’è migliore lotta alle mafie di quella che toglie loro beni e risorse economiche per restituirle alla collettività. Lo scopo delle mafie è fare affari. Togliergli le ricchezze significa combatterle! Questa è la grande intuizione del deputato comunista Pio La Torre. E ci sono due norme, tra cui proprio la legge immaginata da Pio La Torre, che bisogna tenere in considerazione. La legge Rognoni-La Torre viene approvata il 13 settembre del 1982, a cinque mesi dall’assassinio del deputato, e per la prima volta nella storia punisce il reato di mafia e introduce lo strumento del sequestro e della confisca dei beni (articolo 416 bis del codice penale).
E poi c’è un’altra legge importantissima, quella per il riuso dei beni confiscati (legge n. 109/1996). Viene approvata un anno dopo l’avvio di un’imponente raccolta di firme promossa da Libera – nata proprio nel 1995 – a sostegno di una proposta di legge per introdurre il principio del riutilizzo dei beni confiscati. Una tappa fondamentale di quel percorso immaginato e avviato da La Torre.
In che modo il sindacato può dare il proprio contributo sul fronte del riuso dei beni confiscati? Puoi parlarci in particolare del ruolo dello SPI?
Si può e si deve lavorare sul territorio. Per ciò che riguarda nello specifico lo SPI CGIL, il nostro impegno per il riuso sociale dei beni confiscati può partire dalla contrattazione sociale territoriale. Su questo fronte possiamo fare molto, insieme alla Confederazione, dialogando con le istituzioni locali e anche con il contributo di Auser che, come associazione del terzo settore, su questo versante può dare il suo contributo.
Nella guida al riuso sociale dei beni confiscati “Nelle nostre mani” (link https://www.libereta.it/prodotto/nelle-nostre-mani-guida-al-riuso-sociale-dei-beni-confiscati-alle-mafie/) avete raccolto anche le azioni possibili che il sindacato può mettere in campo. Ci sono esperienze concrete di cui puoi parlarci?
Nella guida si affronta un tema importante, infatti diciamo cosa può fare in concreto il sindacato sui beni confiscati, in collaborazione con le Associazioni del Terzo Settore e le cooperative che gestiscono i beni confiscati.
Può essere utile partire da alcune esperienze “pilota” di riuso sociale dei beni confiscati a cui lo Spi insieme alla Confederazione, partecipa attivamente. Faccio solo due esempi: Quarrata, vicino Pistoia. E Spino d’Adda, vicino Milano. In entrambi i casi il sindacato ha stipulato un protocollo con il Comune per poter gestire il bene insieme alle associazioni del terzo settore. Sono due esperienze eccellenti che vedono il sindacato tra gli attori protagonisti del processo di riuso dei beni confiscati.
Ma cosa può fare dunque in concreto il sindacato sul fronte dei beni confiscati?
Si possono fare molte cose. Ne cito solo qualcuna. Sicuramente sollecitare gli enti locali, le prefetture e l’Anbsc ad accelerare le procedure di assegnazione dei beni e degli immobili confiscati per il loro riutilizzo sociale. Promuovere l’istituzione di tavoli provinciali permanenti così come previsto dal nuovo codice antimafia, come pure definire protocolli, come abbiamo già visto, con le prefetture, parti sociali e i tribunali per facilitare i procedimenti di assegnazione insieme al mondo cooperativo, alle associazioni imprenditoriali, al sistema bancario e alle associazioni di territorio che operano nel sociale.
Oppure monitorare il patrimonio dei beni confiscati alle mafie segnalandone la presenza sul territorio agli enti locali che non ne sono ancora a conoscenza e favorendo la partecipazione degli enti locali alle conferenze delle Regioni che l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati promuove periodicamente proprio per condividere il patrimonio di beni che ha in gestione.
Lo SPI CGIL ha iniziato a impegnarsi sul fronte della legalità partecipando sin dal 2011 ai campi della legalità di Arci e Libera. Ci puoi raccontare di cosa si tratta?
I nostri volontari partecipano numerosi ogni anno ai campi antimafia che si tengono da maggio a ottobre in tutta Italia. Un momento importante in cui possiamo dare il nostro contributo sui temi della legalità. Inoltre nei campi possiamo incontrare migliaia di giovani. Un’occasione unica di dialogo tra generazioni. Lo SPI CGIL non intende solo passare il testimone ai più giovani ma vuole costruire un rapporto di collaborazione e di reciproco supporto, di scambio valoriale e di condivisione.
Ma i campi sono soprattutto uno strumento, una tappa di un percorso più lungo e più ampio di lotta all’illegalità. Un percorso che deve durare tutto l’anno e che deve sostanziarsi in un dialogo costante tra lo SPI CGIL, le istituzioni e le associazioni del terzo settore che si occupano di antimafia sociale.
La legalità richiama un tema importante, da non sottovalutare: la memoria.
Affrontiamo l’argomento con Roberto Battaglia, curatore con Carla Pagani del libro “Terre e libertà. Storie di sindacalisti uccisi dalle mafie”. La seconda edizione, ampliata e aggiornata, è stata pubblicata nel 2022 (link https://www.libereta.it/prodotto/terre-e-liberta-storie-di-sindacalisti-uccisi-dalle-mafie/)
Perché avete deciso di scrivere un libro sui sindacalisti uccisi dalle mafie?
Questo libro lo consideriamo a tutti gli effetti la “memoria parlante”, viva. È la storia di chi si è sacrificato in nome dei diritti e della libertà.
Accursio Miraglia, Giorgio Comparetto, Bernardino Verro, Placido Rizzotto, Giuditta Levato, Pio La Torre, Hyso Telaray. Sono i nomi noti e meno noti di sindacalisti, braccianti, lavoratori che, dalla fine dell’Ottocento a oggi, si sono opposti alle mafie e all’intreccio tra potere politico e imprenditoriale e criminalità organizzata. Vittime innocenti di delitti efferati rimasti quasi sempre impuniti. Uccisi dalle mafie semplicemente per essersi schierati dalla parte della legalità. Se viviamo in un paese democratico lo dobbiamo anche a loro.
Dove ci sono i diritti, le mafie non possono esserci. È molto significativo ciò che dice Pietro Grasso nella prefazione al libro: “Il lavoro, oltre che fondamento della nostra Repubblica democratica, è anche l’unico vero antidoto al potere delle mafie: dove c’è il lavoro giusto, nei diritti, nella retribuzione, nella sicurezza – non c’è ossigeno per la criminalità. Al contrario, dove la sopravvivenza è una lotta e i diritti vengono tenuti in ostaggio e offerti come privilegi, lì si annida il potere delle mafie. Per questo, per più di un secolo, a cadere per mano mafiosa è stato chi difendeva il lavoro e i lavoratori, dai primi del Novecento”.
Il lavoro buono e la buona occupazione, come un welfare forte, sono gli antidoti fondamentali contro le mafie.
Avete pensato a un libro che potessero leggere anche i più giovani?
Sì, volevamo raccontare le storie dei sindacalisti uccisi dalle mafie anche a tutti quei ragazzi che ogni estate partecipano ai campi della legalità. E volevamo farlo senza nessun approccio paternalistico. Non vogliamo insegnare, vogliamo trasmettere e allo stesso tempo ascoltare.
Cosa ci insegnano le storie raccolte nel libro? In cosa risiede la loro attualità?
Che non c’è giustizia senza legalità: le leggi devono essere scritte nell’interesse di tutti, dunque devono essere giuste. Sono fondamentali il rispetto delle regole democratiche, il rispetto della dignità del lavoro e dei diritti.
Per questo le loro storie vanno ricordate. Una targa con tutti i loro nomi è stata affissa fuori dalla sede dello SPI CGIL nazionale a Roma in via dei Frentani.
Sarebbe troppo lungo qui parlare di tutti. Ci puoi fare qualche nome?
Beh un nome su tutti. Quello di Pio La Torre, sindacalista prima, parlamentare poi. Ne abbiamo parlato prima. Porta il suo nome una delle leggi più importanti del nostro ordinamento in fatto di lotta alla mafia. Pio La Torre veniva da una famiglia poverissima di braccianti. Voleva studiare. Lo fece. La Torre diceva che senza lo studio non ci si può difendere.
O ancora, Antonio Esposito Ferraioli, sindacalista, comunista e scout. Muore a soli 27 anni a Pagani in provincia di Salerno nel 1978, lo stesso anno di Aldo Moro e Peppino Impastato. Scopre un affare illegale della camorra legato alla carne avariata della mensa della fabbrica in cui lavora come cuoco e viene ucciso per questo.
O pensiamo a Giuditta Levato che negli anni Quaranta fonda in Calabria una cooperativa di braccianti per combattere lo strapotere dei latifondisti. Esempio di lotta e di emancipazione femminile ante litteram, si batte per un’equa distribuzione delle terre.
Secondo te c’è un collegamento tra i braccianti di ieri e i riders, precari di oggi?
In un certo senso sì. Sono entrambi lavoratori poveri. Il lavoro povero di oggi somiglia al lavoro di cui abbiamo voluto parlare nel volume, quello dei braccianti sfruttati e mal pagati. E quello che crea la mafia è lavoro povero, sempre. E senza diritti.
Di cosa abbiamo bisogno per affrontare il momento storico che stiamo vivendo, come lavoratrici e lavoratori e come cittadini?
Vorrei ricordare tre valori importanti, oggi come nel passato: lavoro, diritti e dignità.
Ecco perché i primi a battersi contro le mafie sono stati i lavoratori, i braccianti che dalla fine dell’Ottocento lottano per condizioni più giuste contro lo strapotere dei latifondisti. Chiedono che il frutto del proprio lavoro gli venga legittimamente dato. Chiedono di non venire privati di ciò che producono.
Ricordiamo la prima strage dei lavoratori a Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio del 1947. La lotta democratica del sindacato è sempre stata una lotta per la dignità del lavoro, per i diritti e per la democrazia e il rispetto delle regole. Ecco perché nel dna del sindacato non c’è solo la lotta alle mafie ma anche a ogni forma di fascismo e di terrorismo.
Il sindacato sempre in difesa della democrazia e dei valori della nostra Costituzione.
Voglio ricordare che la prima vittima di mafia dell’elenco del 21 marzo che l’Associazione Libera legge ogni anno è proprio un sindacalista, Giuseppe Montalbano, medico e patriota dalla parte dei contadini, ucciso nel 1861.
Concludiamo l’intervista chiedendovi una riflessione sul futuro, in particolare nel rapporto con le nuove generazioni.
Serve un vero e proprio patto intergenerazionale caratterizzato da un dialogo fitto e reale tra la trasmissione della memoria e dell’esperienza da parte degli anziani e l’offerta di stimoli e di conoscenze sempre nuove da parte dei più giovani.
Per questo è importante e va valorizzato e diffuso l’impegno nelle scuole con percorsi educativi alla legalità, sicurezza e partecipazione per diffondere diritto di cittadinanza consapevole. Non bisogna essere eroi per battersi contro le mafie, altrimenti ci sentiremmo tutti esonerati. “Maledetto il paese che ha bisogno di eroi” diceva Brecht.